tratto da Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza
Autore: Serenella Iovino
Editore: il Saggiatore, 2022
Napoli Explosion è un esperimento artistico che osservo da alcuni anni. Si tratta di un progetto di arte visiva, una performance live set del fotografo Mario Amura, che ha luogo dal 2006 la notte di Capodanno. Nella fase di post-produzione, centinaia di immagini vengono “suonate insieme” alla musica, spesso composta per l’occasione, generando una fotocoreografia. Puntualmente, poco prima di mezzanotte, l’artista e la sua troupe si piazzano sulla cima del Monte Faito, dall’altra parte del golfo, per trovarsi Napoli a un’estremità e tutto il Vesuvio di fronte. E a mezzanotte in punto, l’esplosione ha inizio. I fuochi d’artificio sono luci che arrivano quasi al bordo del cratere. Nell’elaborazione di Amura, queste luci si sciolgono o si sgretolano, diventando paesaggi metafisici di stelle e animali, gocce di materia e nebulose, strisce colorate che schizzano in verticale, delicate composizioni notturne che ricordano dipinti di Paul Klee. Però tutto parte da lì: dall’esplosione di luce che si sprigiona intorno al vulcano, ogni anno uguale nella ritualità, eppure ogni anno in grado di raccontare storie diverse. “Quest’anno ho visto più povertà, e più rabbia”, mi disse Mario per il Capodanno 2016, a commento delle foto di un anno difficile per l’Italia e per Napoli. Anche il trapasso tra il 2020 e il 2021, dopo il primo anno di Covid, è stato un racconto a sé: “Luci bianche. Rumore zero”.
Effettivamente, quindi, quella che potrebbe sembrare un’esperienza ripetitiva cambia ogni volta, e ogni volta la fotografia cattura la sincronia di un gigantesco esorcismo contro le forze inumane – il vulcano, il destino – che dimorano in questo luogo. Questo esorcismo, però, viene eseguito rimuovendo – di nuovo, dimenticando – il fatto che il luogo in cui si consuma è vivo tra elementi vivi. E qui c’è quello che in queste immagini ci vedo io: ci vedo le persone che, a causa dei fuochi d’artificio, rimangono mutilate o addirittura muoiono come in un teatro di guerra; tutti gli animali, domestici e selvatici, terrorizzati e uccisi da queste esplosioni; e le reti ramificate di illegalità, sfruttamento, violenza e inquinamento chimico derivanti dalla produzione dei botti e dal loro utilizzo. E ci vedo anche quanto sia salita in alto la speculazione immobiliare sulle pendici del Vesuvio: le luci mostrano che le case circondano completamente il vulcano. Ciò significa che, a dispetto dell’evidenza e di qualsiasi principio di precauzione, nell’immaginario locale il Vesuvio è tornato a essere “semplicemente” una montagna, ed è ricoperto da una crosta di costruzioni, spesso illegali, e anche da tantissime discariche, grandi o piccole, tutte abusive. La sua natura, insieme al suo ambiente vitale minacciato, è stata, ancora una volta, dimenticata. Ma da quest’esperimento artistico si può anche vedere che il vulcano è lì, scuro tra le luci, silenzioso sotto i botti, tutt’uno con la mente di questo luogo. Amura mi ha detto spesso che Napoli Explosion è un esperimento artistico, sì: ma anche antropologico e psicologico. Lo è perché indaga su come il vulcano entra nelle paure, nelle speranze e nelle emozioni di questa gente presa da un luogo che è allo stesso tempo un grembo e una trappola. Al di là del folklore, questi fuochi esprimono periodi di crisi, il desiderio di dimenticare o di ricostruire e, paradossalmente, la necessità di resistere, pur rimanendo parte di un territorio pervaso da forze violentissime. In piedi, al freddo, in cima alla montagna di fronte al vulcano con la sua squadra di otto-nove elementi, Amura è come Plinio il Vecchio. Raccoglie gli elementi di questa storia, ben consapevole che il vero protagonista è un paesaggio che potrebbe inghiottirci tutti. Ma l’altra cosa che le sue foto rivelano, io credo, è il desiderio collettivo inconfessabile di essere inghiottiti dalla porosità dell’inumano. Questo mi fa pensare che tutti i paesaggi sono porosi, tutti possono inghiottirci, anche a causa del modo in cui li trattiamo; e anzi, forse li stiamo proprio sfidando a farlo. Parlo di paesaggi, intendo il pianeta.